Partiamo dal titolo. La notte più buia richiama, con un duplice riferimento, l’oscurità come situazione di accecamento, di black out mentale, sensoriale.
Cosa tratteremo
Da dove arriva questo cortocircuito simbolico e memoriale?
La notte più buia fu quella nella quale, a soli quattro anni, mi ritrovai nella notte solo e disperato, “perso” per ore nel letto dei miei genitori, per ragioni che capirete leggendo il libro. É questo il primo ricordo della mia vita e, insieme, lo scalpello che ha scavato nella mia personalità solchi profondi, ferite per sanare le quali sono stati necessari decenni. Questa mia prima esperienza consapevole ha fatto il paio, moltissimo tempo dopo, con la lunga notte del Covid, con il periodo buio della quarantena. Lo stesso che ho voluto esorcizzare scrivendo questo libro, in cui i molti e incrociati ricordi vengono utilizzati per raccontare la storia di un’intera generazione. Naturalmente il buio della notte ha un significato simbolico, come dici giustamente tu, perché allude alla massima angoscia che si possa sperimentare: quella legata alla paura di ciò che, non potendo essere osservato, non si conosce. La cosa che meno si conosce è la morte e ciò che segue ad essa. E questa scimmia nera si posa sulla nostra spalla dal momento in cui in noi “si versa” la consapevolezza di essere delle creature fragili e finite.
Romanzo di formazione, racconto politico, riflessione sulla vita e sulla storia. Quest’opera è intessuta di riferimenti letterari che – insieme ai frammenti di memoria – tessono una trama arabescata, di rimandi e suggestioni.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Dici bene. Romanzo di formazione, mia e della generazione alla quale ho appartenuto. Una lunga storia, narrata attraverso molti episodi-racconti che traggono spunto da incontri e fatti della mia vita trattati in modo “infedele” però. Nel senso che a me non interessa fare un’autobiografia corretta. A me interessa il racconto di un tempo, a partire dalle situazioni che meglio conosco perché le ho vissute; la precisione dei fatti, il nome e il cognome dei protagonisti contano relativamente. L’unico rigore che ho ritenuto vincolante è stato quello di restituire lo spirito di un tempo che, confrontato con quello di oggi, rende il senso della crisi che viviamo.
Questa cosa seria, tuttavia, ho voluto farla in modo non serioso. Usando tutta l’ironia e anche il senso del comico che conosco e posso esprimere. Usando un occhio cinico e compassionevole insieme. Régard medical direbbe Foucault. Da medico, uso uno sguardo che non bada solo alla clinica ma usa l’arte e la politica, usa tutti gli attori e le attrici del film che ho vissuto, amati/e e odiati/e, per ricostruire un intero. Un’unica, indivisibile, mutevole sostanza. Una visione debitrice di Spinoza, di Hegel e di Marx. E anche di Gramsci. La figura che sullo sfondo, insieme a Leopardi, rappresenta l’esempio più superbo di una fragilità che si fa potenza infinita. Questa complessità, come quando scrivo d’arte, io l’ho voluta affrontare e narrare con il linguaggio più semplice ed essenziale. Una scrittura chiara e asciutta è quella a cui aspiro.
Nella tradizione dei maestri dell’Illuminismo e nella pratica degli scrittori della nostra stagione resistenziale e non solo: Pavese, Fenoglio, Vittorini, Calvino, Rigoni Stern, Natalia Ginzburg. E ancora: Conrad, Hemingway, Steimbeck e poi Camus, Leonardo Sciascia, Carver, John Fante e tanti altri.
Uno dei fuochi del libro è senz’altro il rapporto con il sapere medico, una concezione totale che supera ogni idea di parzialità, di competenza settoriale.
Quanto è importante tutto questo?
É molto importante. Penso, infatti, che, se non avessi fatto il medico, probabilmente la mia visione del mondo sarebbe stata diversa. Avrei avuto storie d’amore diverse rispetto a quelle narrate nel libro. Non avrei avuto la stessa attenzione per la fragilità, intesa come un problema ma anche come una risorsa. Probabilmente non avrei avuto la stessa sensibilità nei confronti delle arti visive, che è stata per me naturale perché la medicina stessa, quella classica, è un’arte lunga e infinita. Purtroppo la medicina di oggi è cambiata. Fatta a pezzi dall’iper-specialismo e da una sistematica, drammatica divisione del fare e del sapere. Non è più un’arte. Tutt’al più, quando è buona, è una buona tecnica. Quando non lo è, diventa puro business.
Definirei la tua scrittura chirurgica: elimini il superfluo, assegnando alla parola una densità tattile, tra l’ironico e il realistico. È un esercizio di cesello, che risente molto – credo – della prossimità col campo artistico.
Vuoi dire qualcosa sul metodo che adotti e sulla scelta dei termini?
In effetti i miei amici artisti – che spesso ho curato e quindi, almeno con me, erano sinceri – mi hanno sempre insegnato che in arte ciò che è superfluo è dannoso. Che la pratica più efficace è quella “per via di togliere” e non “per via di aggiungere”. Perché usare una parola difficile, se ce n’è una semplice che rende meglio l’idea? Perché essere “lunghi”, se si può essere “brevi”? Scrivere e dipingere è la stessa cosa. Una cosa simile a quella di saper ascoltare un paziente, saperlo visitare, arrivando alla diagnosi e al capolavoro della guarigione. Tu definisci la mia scrittura chirurgica e io approvo la definizione, se si aggettiva come “chirurgica” una pratica che toglie di mezzo il superfluo. Non solo perché così si capisce meglio quello che vuoi dire ma anche perché quello che vuoi dire così lo dici meglio.
Insomma non è solo una questione di chiarezza, ma anche di bellezza, di estetica. All’ultima domanda ho praticamente già risposto. I termini vengono scelti per mettere in pratica i principi che ho sommariamente indicato. Fatto salvo il diritto-dovere di concedersi libertà espressive di varia natura perché, ovviamente, quando scrivi una storia non stai compilando un manuale. In questo senso l’ironia più che una questione di stile è uno strumento di lavoro per conoscere, scoprire, capire, provando a prendere il lettore per mano. Il realismo è la mia patria ma non quello naturalistico o formalista, ma, tendenzialmente, quello “per tipi” che piaceva a Giorgy Lukacs.